L’essere umano e le patologie umane sono complessi, spesso o quasi sempre il rischio di patologie cronico-degenerative come il cancro, il diabete o l’ Alzheimer, è collegato a fattori correlati allo stile di vita.
Studiare i fattori di rischio collegati allo stile di vita umano implica quindi necessariamente studi sull’uomo, considerando anche che la maggior parte delle patologie più diffuse è anche ampiamente prevenibile (prevenzione primaria e secondaria) con interventi mirati. Come a dire che non si dovrebbe sempre necessariamente guardare allo sviluppo di nuovi farmaci per curare queste malattie. L’osservazione dei pazienti, insieme all’integrazione di modelli avanzati in vitro, machine learning e modelli computazionali (nuovi approcci metodologici) sono gli strumenti d’avanguardia attualmente disponibili per una ricerca che ponga la biologia umana al centro della scena. Pensare di riprodurre la complessità e multi-dimensionalita’ delle condizioni umane in altre specie animali è un esercizio assurdo, oltre che pericoloso. Il sistema immunitario, la risposta all’infiammazione, l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo, l’escrezione e la tossicologia dei farmaci potrebbero essere, e di solito lo sono, differenti tra le varie specie.
La variabilità fra specie diverse è un problema insormontabile (concetto di “validità esterna”, per approfondimenti si rimanda all’articolo dedicato) e anche se si cercasse di ottimizzare i modelli animali in molteplici modi (introducendo l’ennesima variabile genica, o modificando il microbiota intestinale, o tentando di “umanizzare” ovvero rendere più simile a quello umano il sistema immunitario, ecc.), per motivi ormai ampiamente dimostrati, un topo, (o un ratto, o un cane, o un primate) non saranno mai paragonabili all’essere umano, come suggerito e discusso da molti scienziati in molti articoli peer-reviewed. Eppure, spesso l’uso del modello animale viene giustificato dal bisogno di studiare le malattie umane in un organismo intero, che al contrario dei modelli cellulari (in vitro), permetterebbe di ottenere risposte a livello sistemico, in un contesto di complessità. Ma è davvero così? Davvero il modello animale rispetto ai modelli cellulari permette un approccio onnicomprensivo e non riduzionista allo studio delle condizioni umane?
Il modello animale è un modello riduzionistico
Analizziamo le modalità con cui un modello animale viene creato ed utilizzato. In termini molto semplici, si inducono artificialmente nell’animale uno o più segni e sintomi di una malattia tipicamente umana con lo scopo di studiarne i meccanismi e scoprire nuovi potenziali farmaci ad uso umano.
Se si analizzano i modelli animali in cui vengono indotte queste malattie, si scopre però che un unico modello è ben lontano dal ricapitolare la corrispondente patologia umana: se siamo fortunati riproduce parzialmente ed in maniera grossolana alcuni aspetti, segni o sintomi della malattia, (per quanto si sia in grado di identificarli ed interpretarli!). Perciò di solito esistono più modelli differenti per una stessa patologia, ognuno che cerca di riprodurne un aspetto differente, esattamente come avviene per i più semplicistici modelli in vitro. Il risultato è che in quel determinato modello animale non si sta studiando la malattia umana nella sua complessità ma alcuni aspetti di quella che per segni e sintomi “assomiglia” alla malattia umana. La malattia nell’animale si sviluppa con meccanismi diversi, in tempi e modalità differenti da quelli umani, mentre non si considera l’aspetto più importante per le malattie complesse, quello cioè legato ai fattori ambientali, allo stile di vita.
Si tratta quindi di un approccio altamente riduzionista, che mentre ha la pretesa di fornire informazioni sulla “complessità” tende a parcellizzare il vivente, considerandolo la mera somma delle sue parti. In quest’ottica il modello animale assume più il significato di “una provetta vivente” che di un organismo complesso.
Rimanere focalizzati sugli approcci riduzionistici, atti a parcellizzare e riprodurre in vivo (nell’ animale) o in vitro singoli elementi molecolari o cellulari di patologie umane complesse (quali ad es. quelle cronico-degenerative) ci allontana dalla possibilità di fare scoperte scientificamente utili per gli esseri umani affetti da tali malattie.
Ovviamente gli approcci riduzionisti sono stati molto utili in passato e possono essere oggi ancora utili in alcune situazioni, soprattutto quando si tratta di studiare le malattie ad un livello meccanicistico, di base. Ma questi modelli devono essere presi per ciò che sono e dovrebbero essere basati su cellule o materiali di origine umana. Soprattutto va considerato che ad oggi abbiamo a disposizione un repertorio di metodologie in vitro avanzate (vedi organoidi o organi umani su chip) e tecnologie ad alto rendimento che permettono di studiare la biologia umana in un contesto rilevante per la nostra specie, a diversi livelli di complessità, da quello molecolare, a quello di cellula/tessuto/organo, sistema ecc. Queste metodologie, integrate tra loro e agli studi osservazionali ed interventistici su esseri umani, hanno la potenzialità di accelerare il progresso della ricerca biomedica sulle malattie umane complesse e di sostituire gli animali, per un approccio alla ricerca scientificamente valido ed eticamente sostenibile.